Spunto teologico

La definizione di gioco come situazione di vita a rischio controllato suggerisce che giocare coinvolge tutte le dimensioni della vita, la gioia come la delusione, lo sforzo come la gratificazione, l’impegno come la collaborazione, limitando però i rischi. Per questo perdere una partita dispiace, crea dolore, genera rabbia e desiderio di rivalsa… ma non è così irrimediabile come “perdere la vita”.

Pertanto giocare è una cosa seria e ne va della persona in tutta la sua identità. Osservare come un bambino, un ragazzo o un adulto gioca offre tante informazioni su come questa persona “si gioca” nella vita. Sarebbe molto riduttivo affermare che il gioco si pone in alternativa alle attività serie della vita come il lavorare o lo studiare; al contrario, il gioco è quell'attività così seria da meritare che s’interrompano le altre per farle posto. Giocare è prendere una pausa da altre incombenze quotidiane per poi tornare a compierle con spirito rinnovato. Il gioco vive della stessa dinamica della festa, che rappresenta, quando è autentica, non tanto un’evasione dalla quotidianità, quanto una consapevole presa di distanza per poi tornare rinnovati agli impegni di tutti i giorni.
Alla luce di queste rapide riflessioni, possiamo domandarci: ma Dio gioca?

Interessante è la possibilità che Dio giochi con le parole, in particolare con il linguaggio parabolico.
Che cosa stava facendo Gesù quando narrava le parabole? Era semplicemente un espediente retorico per rendere più gradevole il suo messaggio e aumentare l’audience? Riprendendo la definizione iniziale di gioco, anche la parabola è una “descrizione della vita a rischio controllato”. Narrando di quel padre il cui figlio minore chiese la propria parte di eredità per poi lasciare la casa paterna (cfr. Lc 15), Gesù non stava raccontando fatti inverosimili, bensì qualcosa che – in un modo o nell'altro – tanti dei suoi ascoltatori conoscevano o forse vivevano in prima persona. Procedendo nel racconto, Gesù accompagnava i suoi interlocutori a prendere posizione rispetto alla scena descritta: io come mi sarei comportato? A quali di questi personaggi assomiglio maggiormente? Che reazione suscita in me l’esito del racconto? Il “vantaggio” della parabola è quello di entrare nelle questioni importanti della vita attraverso personaggi realistici ma fittizi. Le emozioni provocate sono reali, ma rientrati nella vita quotidiana si apre la possibilità di scrivere un esito diverso da quello prospettato dal racconto. Così, colui che si sente rappresentato da quel figlio maggiore che non osa uscire di casa e gustarsi la vita ha la possibilità di prendere scelte importanti nella sua esistenza quotidiana, grazie a quanto l’ascolto della parabola ha suscitato in lui.

Maestro di quest’arte è il profeta Natan, che per toccare il cuore del re Davide, indurito dal suo peccato, si serve di una storiella banale e anche infantile, che riesce a scuotere il monarca accecato dalla sua avidità (cfr. 1Re 16-17). La vicenda è nota. Una sera, mentre il suo esercito è impegnato in battaglia a nord di Gerusalemme, il re Davide dalla sua terrazza vede una donna molto bella mentre fa il bagno. Se ne innamora e la invita a palazzo: è la moglie di uno dei soldati impegnati al fronte. Dopo una notte d’amore, la rimanda a casa. La donna concepisce un figlio e avvisa il re. Il monarca deve coprire il misfatto e architetta un piano ingegnoso. Richiama Uria, il marito della donna, finge di interessarsi della guerra e poi per due volte lo rimanda a casa dalla moglie, sperando di poter attribuire al legittimo marito la gravidanza di Betzabea. Sorprendentemente il soldato non va dalla moglie, per rispetto dei commilitoni impegnati in battaglia. Vistosi beffato dal suo suddito, re Davide lo rimanda al fronte con una lettera per il suo generale nella quale gli ordina di porre Uria nel luogo maggiormente presidiato dai nemici, così che cada in battaglia. Quando giunge a palazzo la notizia della morte di Uria, il re può accogliere Betzabea nella speranza di mettere finalmente a tacere la questione.

Inviato da Dio, il profeta Natan affronta il re. Ma piuttosto che puntare il dito direttamente, gli racconta una storiella: un tale aveva una pecorella, che aveva cresciuto come una figlia, condividendo con lei anche il cibo; il potente del paese, dovendo preparare il pasto per un ospite di passaggio, strappò dalle mani di quell'uomola sua pecorella e la uccise. Re Davide, colpito dalla vicenda, si inalbera: «Colui che ha fatto questo deve morire!». Solo a questo punto il profeta getta la maschera e svela l’artificio: il racconto della vicenda, verosimile, non è che un pretesto affinché il re rientri in sé, assuma nuovamente la sua responsabilità di sovrano, custode della giustizia, e pronunci la sentenza… contro se stesso. È lui, infatti, quel prepotente che ha strappato la pecorella (Betzabea) dalle mani del suo fidato soldato (Uria).

La storiella, nella sua banalità, contiene in sé la vita ed è capace di toccare le corde profonde di Davide. Egli pensa sia “solo” una vicenda di cronaca e pronuncia il giudizio, non accorgendosi che essa interpreta anche i suoi molteplici misfatti. Presentata apparentemente come un episodio su cui il re doveva dare il proprio parere, la parabola narrata da Natan ha abbassato le difese che verosimilmente Davide avrebbe alzato di fronte a un’accusa esplicita e diretta. Giocando con le parole (di fatto Natan ha inventato la storia), il profeta ha rappresentato la vita e Davide, non cogliendo il rischio, ha formulato un giudizio (che in questo caso lo condannava).

Se dunque nel gioco passa la vita, la rivelazione biblica ci invita a considerare però che la vita non è un gioco. In tutta la predicazione di Gesù è chiaro e costante il richiamo al primato della coscienza personale, all'impossibilità di nascondersi dietro a una religiosità di apparenza e non di adesione. Gesù stesso dà l’esempio facendo il primo passo, mettendo in pratica quanto raccontato e raccomandato a chi lo aveva incontrato. Sulla croce egli consegna la vita per davvero e non per finta.

Meno frequenti nei Vangeli i riferimenti al gioco come oggi è comunemente inteso, come pure alle attività sportive (citate solo per qualche esempio da Paolo). Il Nuovo Testamento non conosce quella deriva del concetto di gioco che lo presenta come realtà fine a se stessa: in altre parole il gioco non è mai presentato come attività di puro divertimento, come purtroppo spesso avviene oggi.

Uno sguardo rapido della rivelazione biblica suggerisce quindi, in sintesi:
  • il gioco è una cosa seria, nel quale si esprime in modo simbolico (e quindi reale) ciò che si è nella vita;
  • la vita non è un gioco nell'accezione debole di questa parola. In ogni istante occorre giocarsi senza limitarsi a giocare senza scopo, per puro divertimento;
  • la scelta di Gesù di usare le parabole lascia all'esperienza oratoriana il compito sempre nuovo di trovare linguaggi e metafore per annunciare il Vangelo.

In quest’ottica un certo modo di giocare in oratorio, dove siano valorizzate l’inclusione, la creatività, la collaborazione come pure l’impegno, la passione, la costanza è molto più significativo di una presentazione rigida dei contenuti evangelici privi di un aggancio alla vita.


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